Lila

Lila

A pagina 152 Lila incontra ai margini di un campo di granturco con gli stocchi morti ancora in piedi inondati dalla tenue luce del sole nella mattina gelida, nei pressi della baracca dove è vissuta e che le trasmette il conforto familiare dell’odore del vecchio legno rinsecchito, in questo posto misteriosamente pacificato Lila incontra un ragazzo.  È lercio. Miserabile. Fuggiasco. Nella sua voce un’incrinatura di disperazione.  Forse ha ucciso il padre. Lila proviene da una vita altrettanto difficile. Fatta di solitudine e dolori. Discese agli inferi e tentativi. Ora è sposata con il vecchio reverendo e aspetta un figlio.

 
In questo panorama si dispiega tra i due una indicibile gentilezza. Una vicinanza tra esperienze umane che diventa lirica. E chi legge si commuove. Fino al dolore. Come sa suscitare solo una bellezza estrema.

 
Bastano queste poche pagine per dire che Lila è un grande libro e Marilynne Robinson una grande scrittrice. Ma nulla di nuovo. Robinson è un gigante della letteratura americana (solo io lo scopro adesso). Con una tecnica straordinaria. Mescola il presente con il passato e con lo scenario del futuro nel flusso continuo di una narrazione che diventa epica. E lascia piccole tracce di comprensione nel passaggio da un tempo all’altro. Mi ricorda Faulkner.

 
È la storia di anime perse che vagabondano e qualche volta si incontrano. Sullo sfondo della Grande Depressione portano il fardello della vergogna e la ricerca del riscatto. Una cosa è certa: non c’è modo di liberarsi della colpa. Se non con la pietà. Marilynne Robinson sparge pietas sulle sofferenze di un’umanità randagia. E ci fa condividere una sorta di appartenenza sentimentale al genere umano.

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