PATERSON

 

PATERSON è un film di Jim Jarmush. Un bellissimo film sulla poesia. Non la poesia in generale ma un certo modo che affina lo sguardo verso le piccole cose, quelle generalmente trascurate. E difatti le citazioni poetiche del film, da William Carlos Williams, il padre di tutti, a Frank O’Hara fino alle poesie scritte per il film stesso da Ron Padget [la cosiddetta New York School], sono, direi volentieri, cronaca. Registrano cioè situazioni comuni di uomini comuni in città comuni. E con pochi tratti tutto sale di piano, si espande e diventa lirico. È il miracolo della poesia: rade parole di nessuna ricercatezza messe insieme attivano inesprimibili armonie di suono e senso [Valéry diceva qualcosa del genere]. Non conosco questi poeti [ma mi sono documentato e li leggerò presto], ma conosco il genere, per esempio quella linea realistico-narrativa della poesia italiana. Resto incantato quando l’opera di un poeta, tutta l’opera e non una o due poesie, danno vita ad una visione universale di mondo che tu riconosci e dici: ci sono anch’io.

 
Questo fa PATERSON. Racconta un mondo. Paterson è una città del New Jersey a vocazione poetica, frequentata da Williams e da Ginsberg, ed è il nome del protagonista. Adam Driver, splendido attore, interpreta un autista di autobus urbani che fa sempre le stesse cose. Si sveglia abbracciato alla bella ed amata moglie alle 6 e un quarto, mangia cereali a colazione, esce di casa a piedi, ascolta i guai del suo capo, guida l’autobus, torna a casa, raddrizza la cassetta della posta che trova puntualmente pencolante, saluta la moglie che dipinge ogni cosa, tessuti, tavoli, vestiti, una specie di Frida Khalo più bella, poi dopo cena porta il cane Marvin in giro e si ferma al bar dove beve una birra e scambia poche parole e pochi sorrisi con un’umanità altrettanto sommessa. Ma PATERSON ama la poesia e riempie i suoi taccuini di versi. E in questo universo di ripetitività e silenzi è proprio il suo sguardo poetico che gli fa scorgere le piccole impercettibili variazioni di registro. Accidentalità poetiche, si direbbe, esitazioni del tempo, affinità mai viste, coincidenze, scoperte, paesaggi. E riconoscimenti [i poeti si riconoscono tra loro e si parlano]. Ogni cosa finisce nel suo taccuino. E si trasforma in una dimensione altra. Non c’è bisogno di niente in più. PATERSON non ha velleità, scrive per sé. Per vivere. Come dimostra il finale del film.

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