keith jarrett al san carlo

keith jarrett

 

Keith Jarrett è tutt’uno con lo strumento. Mingherlino. Vestito di nero. Rannicchiato sullo sgabello. Come si contrae un fiore notturno. Si solleva restando piegato. Un acrobata gentile sostenuto dal nulla. Si distende sulla tastiera. Porta il volto vicino ai tasti. Poi sul meccanismo del pianoforte aperto. Come a sentire il respiro silenzioso delle note. Si allunga all’indietro. Fa uscire qualche gridolino dal suo corpo assorto. Come un’agonia. Ogni gesto è calibrato sulle note. Niente di eclatante. Un grumo nel buio silenzioso della sala, sotto una luce puntata.

 
Jarrett improvvisa. Parte da un preludio di pochi accordi e viaggia in una complessa trama di sentimenti ed emozioni. Ne scopre lui per primo il peso e ne dispiega l’intreccio. Ogni volta. Un viaggio che riparte da zero. Il pubblico condivide. Come se un vecchio nonno stesse raccontando la propria storia. Fino a scoprire che è la storia di ognuno di noi. O l’opportunità di attraversarne i solchi per riconoscere il senso dell’esperienza.

 
Entra ed esce dalla melodia. Ne tiene a bada la voce suadente. Il percorso è ben più aspro.

 
Per un momento mi è sembrato di stare da fuori. E vedere un’arca di umanità che valesse la pena di salvare. Un unico bozzolo al riparo del fragore. Sospeso nel silenzio minerale dell’universo. La musica unica voce.

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