LEGGENDA PRIVATA

 

Michele Mari scrive come i narratori di avventure. Usa una lingua ricca fragorosa incalzante e piena di registri diversi. Per capirci, il contrario della scrittura minimalista. Non è nelle mie corde, ma a leggere questo Leggenda Privata, una volta entrati nel codice, sembra di immergersi nelle atmosfere chessò di Salgari, Jack London, Stevenson. O di un classico film western. [leggo che Michele Mari è appassionato di western e questo lo rende più simpatico. Inoltre è traduttore di Stevenson e London, tra gli altri]. E l’avventura del libro sta in una specie di duello a tre [come ne Il buono, il brutto e il cattivo]. Ma più complicato perché lui, Michele, è solo e gli altri duellanti sono ognuno una banda. La prima, quella degli Accademici, Quello che gorgoglia, Quello che biascica, Quella dalle orbite vuote, che pretendono una autobiografia horror e gli fanno visita di notte come incubi, fantasmi vampiri assetati di vita vera. Ma il vero regolamento dei conti è con la famiglia, l’altro duellante multiplo. Dove emerge come un totem la figura di Enzo, grande e celebrato designer, ma ingombrante e duro come una roccia gigantesca. Poi c’è la malinconica Iela, madre scalatrice e amica di Dino Buzzati Eugenio Montale e Walter Bonatti. E poi la sorella e i nonni paterni, di origini pugliesi, poveri e pieni di una voglia di riscatto trasmessa a suon di cinghiate al figlio Enzo [non ti lamentare, il padre era stato educato con le cinghiate dal lato della fibbia]. E i nonni materni, cattolici e perbenisti che non hanno mai incontrato i dirimpettai nonni paterni né lo stesso Enzo. Lo scenario è la Milano del bar Giamaica frequentato dagli amici Giorgio Gaber e Enzo Jannacci, dello studio e degli allestimenti di Danese. E poi la casa dei nonni a Nasca sul lago Maggiore dove c’è la trattoria Bergonzi, luogo di cibi bolliti e dell’incontro fatale con una ragazza dai talloni rosei che diventerà la fantasia erotica di tutta una vita. Fino all’inaspettato finale che va oltre la biografia, per approdare alla trama del romanzo.

 

Anni fa ho conosciuto e intervistato Enzo Mari [d’Architettura n°24/2004], nel suo studio a Milano che attraversava con la sua mole facendo scricchiolare il vecchio parquet sotto le suole delle sue scarpe lucide. La definizione di Michele Mari, un padre in parte Mosè in parte John Houston, sul filo della memoria l’ho trovata meravigliosa.

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